A volte ho la sensazione che alcune parole siano come quei cavi dietro la TV che, per quanto provi a separarli e ordinarli, restano sempre incasinati e indistinguibili. Ecco, “coming out” e “outing” sono proprio come quei fili: spesso ingarbugliati nella mente di tanti. Ma tranquilli, oggi ci armiamo di pazienza e facciamo chiarezza.
Partiamo dall’inizio, che è sempre una buona cosa: “coming out” deriva dall’espressione inglese “coming out of the closet“, letteralmente “uscire dall’armadio”. No, non parliamo di mobili IKEA, ma di quella metafora per cui una persona decide volontariamente di rivelare agli altri (e spesso a se stessa) il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere. Insomma, si tratta di aprire quella porta metaforica che teniamo chiusa per paura dei giudizi, dei pregiudizi e a volte anche delle reazioni più estreme.
Ecco perché fare coming out è considerato un atto di grande coraggio, non solo un semplice gesto di trasparenza. Quando una persona decide di condividere con amici, parenti o colleghi una parte così intima e autentica della propria vita, fa un passo importante verso la libertà e l’autenticità. E fidatevi, in molti casi equivale a togliersi di dosso un peso enorme. Un esempio famoso in Italia è Tiziano Ferro, che nel suo libro “Trent’anni e una chiacchierata con papà” ha raccontato il suo percorso personale verso l’accettazione. E diciamocelo, dopo quella confessione, Tiziano ci è sembrato ancora più simpatico.
Ma allora, cos’è questo “outing” che spesso sentiamo nominare e che, con una certa leggerezza, viene utilizzato come sinonimo di coming out? Qui arriva la differenza fondamentale, quella che dovete tenere bene a mente per evitare figuracce (e soprattutto per rispettare gli altri): l’outing avviene quando qualcuno rivela l’orientamento sessuale o l’identità di genere di un’altra persona senza il suo consenso.
Capito la differenza?
- Coming out: scelta personale.
- Outing: imposizione, spesso irrispettosa e dannosa.
Per dirla con un po’ di ironia: se il coming out è il vostro amico che finalmente dice ai suoi genitori che non sposerà mai quella ragazza che tanto piace alla zia (e che la felpa col cappuccio gli piace più indossarla che vederla sulle ragazze), l’outing è quella zia impicciona che dice davanti a tutti durante il pranzo di Natale: “Eh, ma tanto lo sappiamo tutti che a Giacomo non piacciono le ragazze!“. Capite bene che non è esattamente la stessa cosa.
Purtroppo, i casi di outing celebri non mancano nemmeno nel nostro paese. Alcuni esempi recenti riguardano Mahmood e Fedez, vittime di rivelazioni pubbliche fatte da altri, senza il loro permesso. Sì, si tratta proprio di episodi da “figuraccia nazionale” che ci ricordano quanto il rispetto della privacy sia fondamentale.
Ma perché le persone eterosessuali e cisgender non fanno coming out e, anzi, spesso giudicano chi lo fa? La risposta è semplice: vivono in una società che dà per scontato il loro orientamento e la loro identità. Insomma, nessuno chiede mai a una persona etero: “Da quanto hai capito di essere etero?“. Però, quando qualcuno decide di dichiarare apertamente la propria identità LGBTQIA+, spesso si sente dire: “Ma c’era bisogno di dirlo?“. Beh sì, c’è bisogno, perché ancora oggi si dà troppo per scontata l’eterosessualità e l’identità cisgender, e dichiarare apertamente chi siamo è un passo importante verso l’accettazione e la visibilità.
L’origine storica del coming out è davvero curiosa. Nato inizialmente come rito interno nella comunità LGBTQIA+, ha preso piede soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando alcune drag queen utilizzarono l’espressione riferendosi ai balli delle debuttanti, ironizzando sulle cerimonie ufficiali delle ragazze dell’alta società. Insomma, tutto nacque con ironia e un po’ di provocazione.
A proposito di benefici, il coming out non è solo una liberazione simbolica: è scientificamente dimostrato che migliora la salute mentale, aumenta l’autostima e riduce ansia e depressione. Non male, no? Eli Coleman, noto sessuologo, descrive il coming out come un vero e proprio viaggio verso l’integrazione e l’autodefinizione. Tradotto: più autentici siamo, più felici viviamo.
Quindi, se qualcuno vi chiede ancora perché esiste una giornata come il Coming Out Day (11 ottobre, segnatevelo sul calendario), la risposta è semplice: perché c’è ancora tanto lavoro da fare, stereotipi da smantellare e soprattutto diritti da conquistare. Durante questa giornata speciale, città di tutto il mondo organizzano eventi per celebrare e supportare chi ha deciso di vivere alla luce del sole.
E allora, cari lettori, ricordatevi sempre che fare coming out è un diritto, non un dovere. È un viaggio personale che merita rispetto, sostegno e comprensione. Quanto all’outing, invece, beh, meglio lasciarlo nel dimenticatoio, insieme alle foto imbarazzanti della gita delle medie.
Spero che ora i cavi dietro la vostra TV mentale siano un po’ meno aggrovigliati. E se così non fosse, almeno spero di avervi strappato un sorriso.
Alla prossima!