Quando diciamo “transgender”, qualcuno pensa subito a corpi che cambiano, voci che si modificano, camminate che si reinventano. In realtà, parliamo di una questione molto più profonda, che non si misura a colpi di bisturi o ormoni, ma con la lente della verità interiore. Una persona transgender è semplicemente una persona. Punto. Una persona la cui identità di genere non corrisponde a quella che le è stata appiccicata alla nascita. La famosa casella barrata sul certificato: M o F. Come se tutto il resto non esistesse.
Nel lessico della comunità LGBTQIA+, la T è una delle lettere più spesso guardata con la testa storta, come a dire: “sì, ma loro sono un caso a parte“. Spoiler: non è così. Sono parte del tutto. E quel tutto, per essere giusto, deve essere completo. Transgender è un termine che racchiude esperienze diverse, storie uniche e cammini personali. Non tutti intraprendono un percorso medico. Alcuni lo fanno, altri no. Ma non è questo che definisce chi è una persona trans.
La differenza, per chi avesse ancora dubbi, sta tutta tra transgender e cisgender. Le persone cisgender sono quelle che si riconoscono nel genere che è stato loro attribuito alla nascita. Fine della spiegazione. Ma per le persone trans, quel genere non risuona, non descrive, non appartiene. E quindi iniziano a costruire la propria identità, a dichiararla, a difenderla.
C’è anche da dire che la lingua non è sempre stata un granché nel trattare questo tema. Parole come “transessuale” sono nate in ambienti medici, e infatti si sente tutto: è come se l’identità trans fosse un’anomalia da sistemare. Oggi preferiamo parlare di “transgender” proprio per spostare il discorso dall’anatomia alla verità personale. L’asterisco di trans* poi ci ricorda che il mondo non è fatto solo di binari, e che molte persone non si riconoscono in un’identità esclusivamente maschile o femminile.
Ma quanti sono, allora, coloro che si identificano come transgender? Difficile dirlo con precisione, perché non tutti sono nelle condizioni di potersi dichiarare. Ma le stime parlano chiaro: tra lo 0,3% e il 4,5% della popolazione adulta potrebbe essere transgender. In Italia, con circa 53 milioni di adulti, parliamo di centinaia di migliaia di persone. Non di fantasmi, non di eccezioni.
E la storia? La storia è piena di presenze trans, anche se i libri hanno fatto finta di dimenticarle. Il termine “transessuale” è comparso nel XX secolo, tutto centrato sul corpo, sulla transizione fisica. Ma col tempo è diventato chiaro che l’identità non è una questione di bisturi, ma di chi siamo davvero. Dagli anni ’90 in poi, grazie anche a scrittori come Leslie Feinberg e storicə come Susan Stryker, si comincia a parlare di “transgender”. La narrazione si sposta: si parla di vissuti, di diritti, di visibilità.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha tolto la cosiddetta “incongruenza di genere” dall’elenco delle malattie mentali solo nel 2018. Prima di allora, essere trans era letteralmente considerato un problema clinico. Ora è riconosciuto per quello che è: una variante dell’esperienza umana.
E poi c’è il tema della transizione. Anzi, no: della “affermazione di genere“. Sì, perché “transizione” sa troppo di passaggio, di qualcosa che si lascia alle spalle. Invece no: chi afferma il proprio genere sta solo dicendo al mondo chi è davvero. Questo percorso può includere terapie ormonali, operazioni chirurgiche, cambi di nome e documenti. Oppure no. Ogni persona trans ha il suo modo di esprimersi, il suo tempo, la sua voce.
E questo cammino, in Italia, ha anche una cornice legale. La legge 164 del 1982 è stato un primo passo, certo, ma oggi è superata. Riduce tutto a un binarismo, a un percorso obbligato. Fortunatamente, la legge 219 del 2017 sul consenso informato ha rafforzato il diritto a scegliere liberamente se e come procedere. Nessuno deve essere obbligato a cambiare corpo per ottenere un documento. Nessuno deve dimostrare niente a nessuno.
La bandiera transgender, con le sue strisce azzurre, rosa e bianche, è un simbolo potente. L’ha creata Monica Helms nel 1999, e oggi la si vede ovunque: ai Pride, negli spazi culturali, nelle scuole più illuminate. Il bello? È simmetrica: non importa come la giri, resta sempre corretta. Un modo silenzioso ma efficace per dire che ogni identità trans è valida, da qualsiasi lato la guardi.

Ci sono anche due date fondamentali: il 31 marzo, Giornata della Visibilità Trans, e il 20 novembre, Giornata della Memoria Transgender. La prima è una celebrazione di chi resiste, di chi si mostra. La seconda è una commemorazione dolorosa, per ricordare chi è statə uccisə dall’odio, dalla paura, dall’ignoranza. Due giornate che non sono retorica, ma necessità.

Essere transgender non è una fase, non è una moda, non è un capriccio. È una delle tante forme dell’umano. Una presenza che esiste da sempre e che, malgrado l’invisibilità imposta, oggi pretende spazio, diritti, rispetto. E quando parliamo di persone trans, non stiamo parlando di qualcosa da capire. Stiamo parlando di qualcuno da ascoltare.
Se è vero che la società si evolve nel momento in cui ascolta davvero chi l’abita, allora è ora che le persone transgender non siano più costrette a spiegarsi, a giustificarsi, a difendersi. Esistono. Vivono. E non hanno bisogno di permessi per farlo.
E questo, a ben vedere, dovrebbe bastare.