Manuale di adolescenza per casi disperati (ovvero: perché ho deciso di pubblicare un libro che avevo dimenticato in una cartella del PC)

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Sì, lo so. L’incipit sembra quello di un diario trovato sotto al letto durante una pulizia pasquale. Ma fidatevi, questa storia è più vera di quanto io voglia ammettere. Dopo una settimana che mi ha preso a sberle emotive senza nemmeno offrirmi un caffè, eccomi qui, a un passo dall’autopubblicare il mio primo libro. Sottolineo: primo. Non per mancanza di scritti, eh. Ne ho tipo sei nel cassetto, alcuni pure mezzi riletti, altri che mi fissano da mesi chiedendomi “e mo’?”.

Ma stavolta è diverso. Stavolta c’è stato quel clic strano, quel momento in cui il caos del desktop ha deciso di parlarmi. Aprendo per caso (o per mania compulsiva da riordino digitale) una cartella sperduta, ho trovato un file dal titolo quasi tenero nella sua ingenuità: Adolescenza. Una parola che, già da sola, evoca disastri, ormoni impazziti, paranoie esistenziali e citazioni da MSN Messenger.

L’ho aperto. Ho letto. Ho riso. E poi mi sono detta: “Ma che cavolo sto aspettando?”.

Quelle venti pagine scritte con una goffaggine tenera e un’ironia che oggi mi sorprende, erano piene di vita. Una vita esagerata, incasinata, assolutamente sopra le righe, ma vera. E in un mondo in cui tutto dev’essere perfettamente incasellato, ho sentito il bisogno urgente di pubblicare qualcosa che perfetto non è. Qualcosa che esiste proprio perché non si prende sul serio. E così, senza pensarci troppo (che tanto se ci penso troppo, poi non lo faccio), mi sono messa a sistemarlo. Ma senza snaturarlo, eh. Ho corretto giusto qualche verbo, reso comprensibile qualche frase che sembrava uscita da una fanfic del 2005 scritta sotto Red Bull, e via.

Chi mi conosce sa che non sono mai stata una fan dell’autocensura emotiva. E questo libro è tutto tranne che filtrato. È un flusso di coscienza adolescenziale con il filtro “vabbè, ormai lo pubblico, amen”. Ci troverete dialoghi che sembrano usciti da una chat di gruppo, scene che ricordano più i corridoi della scuola che i drammoni letterari, e battute che ancora oggi mi chiedo come mi siano venute in mente. Forse la fame. Forse la noia. O forse ero semplicemente più lucida allora di quanto lo sia adesso.

Le protagoniste? Due cervelli fusi in uno, tanto diversi quanto complementari. La prima era una versione romanzata della mia migliore amica di allora: perennemente invaghita di qualsiasi creatura respirante con una felpa col cappuccio e l’aria da poeta maledetto (anche se magari stava solo cercando il Wi-Fi). L’altra… beh, l’altra ero io. Quella dal sarcasmo facile, la pazienza sotto zero e il cuore che si riempiva in silenzio, per poi sgorgare nei momenti meno opportuni. Tipo davanti a una pubblicità delle caramelle, per capirci. Sì, proprio io. Quella che prima ti manda a quel paese e un secondo dopo ti chiede se hai mangiato.

Da quell’unione di cervelli in frittura, sono uscite venti pagine che oggi sono diventate un libro. Un libro vero, stampabile, leggibile e (spero) anche un pochino amabile. Non è un romanzo classico, non è nemmeno una raccolta di racconti nel senso rigido del termine. È qualcosa che sta in mezzo: un esperimento emotivo, una confessione adolescenziale, un tentativo di dire “ehi, anche io sono stata una mina vagante a quindici anni”.

E ora che lo sto per pubblicare, sì, un po’ di paura c’è. Non sono una scrittrice nel senso accademico del termine. Non ho frequentato scuole di scrittura, non ho un agente, non ho nemmeno un editore. Ho solo le mie parole, la mia testardaggine e un’ironia che mi salva la pelle quando tutto va a rotoli. Ho sempre pensato che scrivere fosse la mia terapia più efficace. E se riesco, anche solo per un attimo, a farvi sentire meno soli, o a strapparvi una risata in mezzo alla noia del lunedì mattina, allora ne sarà valsa la pena.

Mi direte “ma chi ti credi di essere per pubblicare così, senza filtri?”. Nessuno, e proprio per questo lo faccio. Perché oggi pubblicare non dev’essere un privilegio, ma un atto di coraggio. O forse solo un modo per lasciare una traccia, per dire: “Io c’ero, anche se incasinata”.

E se poi il libro non piace? Amen. Vorrà dire che il prossimo sarà migliore. E se anche quello farà schifo, andrà bene lo stesso. Perché ogni parola scritta mi ha insegnato qualcosa, anche solo che dovevo evitare i punti esclamativi.

La verità è che questo libro è una specie di macchina del tempo. Una scatola di ricordi che ho deciso di aprire e condividere, con tutti i rischi del caso. È la mia adolescenza rimaneggiata, ma ancora viva. È la versione letteraria del “non so bene cosa sto facendo, ma lo sto facendo lo stesso”. E se vi va, potete farne parte anche voi.

Preparatevi a entrare in un mondo fatto di battute improbabili, amiche un po’ fuori di testa, professori invisibili, cotte improbabili e qualche riflessione buttata lì come se nulla fosse, ma che poi magari vi rimane in testa per giorni. E se vi viene voglia di scrivermi per dirmi “ma che ti è passato per la testa”, sappiate che la risposta sarà: “Avevo quindici anni. E un PC.”

Ora torno a sistemare la copertina. Perché sì, la faccio da sola pure quella. E magari, tra un capitolo e l’altro, mi organizzo anche per pubblicare quegli altri sei libri rimasti lì a prendere polvere digitale. Ma andiamo per gradi.

Grazie a chi leggerà. A chi riderà. A chi si rivedrà. A chi penserà “che storia assurda”. E anche a chi chiuderà il file dopo tre righe, sbuffando. Va bene tutto. Basta che non mi chiediate di diventare seria. Per quello c’è già il resto del mondo.

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