Era il 2004 quando sul canale statunitense Showtime esordiva The L Word, serie tv che avrebbe, negli anni a seguire, segnato in maniera più o meno indelebile la vita di milioni di ragazze e ragazzi nel mondo, specialmente coloro che sapevano già di appartenere alla comunità LGBT ed altri che invece iniziavano solo in quegli anni a guardare più profondamente dentro di sé.
Non troppo conosciuta, questa splendida serie TV LGBT creata da Ilene Chaiken racconta in maniera decisamente realistica il mondo omosessuale (e non) femminile. Il cast corale, quasi interamente presente per sette stagioni, è formato da donne di diversa età, professione, gusto e ambizione, accomunate però dall’intrecciarsi di storie molto diverse. Nonostante non ci sia una storyline ben definita, la serie affronta a testa alta dei temi molto delicati e importanti, come l’inseminazione artificiale, il coming out e le relazioni familiari. Amore, disagio e forza di volontà sono mixati opportunamente, creando un prodotto di tutto rispetto.
Il cast vede la presenza di Jennifer Beals, Erin Daniels, Leisha Hailey, Laurel Holloman e Pam Grier. La serie è stata candidata agli Emmy Awards nel 2005, grazie alla performance del compianto Ossie Davis. Ha ricevuto inoltre numerosi premi e nomination ai GLAAD Media Awards, NAACP Image Awards e Satellite Awards. Il nome prende spunto da un modo di dire risalente agli anni Ottanta, che indicava con “The L world” l’iniziale della parola lesbica, allora un taboo.
The L Word, 5 motivi per recuperare la serie sull’amore lesbico
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La serie, partita nel 2004, ha rivoluzionato nonostante i difetti il modo di rappresentare i personaggi femminili che amano altre donne
Oggi, nonostante i dati ancora altalenanti, siamo forse piuttosto abituati a osservare in televisione una rappresentazione convincente e realistica (quasi sempre) delle persone Lgbt+. In realtà per molti anni il piccolo schermo stesso ci ha consegnato ritratti stereotipati e piegati allo sguardo di autori eterosessuali. Alcuni passi rivoluzionari, però, vennero all’inizio degli anni Duemila: il 18 gennaio 2004, ad esempio, faceva il suo debutto sul canale americano Showtime The L Word, ovvero una serie che voleva mostrare la vita verosimile (seppure patinata) di un gruppo di donne lesbiche (spesso fra i gruppi più oggetto di cliché o oggettificazione). A 15 anni da quella storica svolta, e mentre Showtime stesso prepare una stagione revival, vediamo i motivi per cui è un bene recuperarla.
1. Il mix di generi
Con le sue sei stagioni, non tutte allo stesso livello qualitativo bisogna dire, The L Word è riuscita a ritagliarsi uno spazio nell’immaginario comune grazie non solo alla potenza del suo messaggio (vedi sotto), ma anche al modo in cui la rappresentazione di un variegato gruppo di donne lesbiche è stata trattata. Fin dagli anni Cinquanta, in cui erano rappresentate spesso come angeli caduti destinati a una brutta fine o come uomini mancati dall’aspetto problematico, le donne omosessuali sono state fra i gruppi Lgbt+ più banalizzati e stereotipati, fino a diventare un cliché della pornografia hard o soft al servizio dei maschi eterosessuali.
Quindi anche ogni tentativo precedente di rappresentarle sullo schermo oscillava fra un romanticismo estenuato punteggiato dal cosiddetto lesbo drama e una perversa ed estrema sensualizzazione. Questa produzione seriale, invece, prese la saggia decisione di attraversare diversi generi, dal dramedy alla commedia pura, dal romance ad alcune improbabili svolte noir per dare l’idea di un universo complesso al pari di qualsiasi altra rappresentazione umana.
2. Il realismo
Difficile parlare di assoluto realismo quando tutte le protagoniste possono permettersi di vivere a West Hollywood, ma il tentativo di The L Word fu soprattutto quello di mostrare la profondità e la tridimensionalità di personaggi lesbici, fin troppo spesso affidati all’immaginario maschile. A partire dalla creatrice della serie, Ilene Chaiken (oggi impegnato su Empire), il racconto viene concepito da donne lesbiche per un pubblico di donne lesbiche (e non solo). Tutto viene utilizzato per creare un senso di realtà insolita per la televisione dell’epoca, dalla terminologia gergale alle inside joke, dall’autoironia su certi luoghi comuni alla messa in campo di problemi comuni e quotidiani.
Quindi, immersi nelle trame romantiche che comunque hanno la predominanza, sono inseriti temi come l’infedeltà, l’inseminazione artificiale, il cancro al seno, le discriminazioni, i problemi sul lavoro, la difficoltà di essere madri, i dolorosi coming out ecc. Dalla relazione altalenante fra Bette e Tina alla libertà sessuale di Shane fino al complesso rapporto (con tragico finale) fra Alice e Dana, vediamo in campo una serie di personaggi che prima ancora di essere lesbici sono umani e soprattutto credibili.
3. L’ispirazione
Da molti personaggi di Orange is The New Black a Eve e Villanelle di Killing Eve, fino a Ruby e Sapphire di Steven Universe, oggi nelle serie possiamo trovare diverse figure femminili che amano altre donne. Fino al 2004 non era certo così, e quando era il caso appunto ci si trovava di fronte a personaggi distorti o funzionali a qualche svolta sensazionalistica. Sebbene Chaiken abbia sempre negato di voler fare uno show politico, come scrisse il New York Times “all’improvviso donne che raramente si erano viste sullo schermo potevano vedere personaggi lesbici avere vite complesse ed eccitanti, ma anche fare l’amore nei bagni dei ristoranti o in piscina“.
Soprattutto negli episodi della prima stagione le protagoniste raccontano in vari modi, ad esempio, come sono riuscite a fare coming out, e questo sicuramente ha dato coraggio a molte ragazze. Allo stesso modo vediamo personaggi come Shane che dicono di essere stati da sempre consapevoli della propria sessualità, o famiglie invece che fanno fatica ad accettare come quelle di Dana e Carmen, o ancora i cosiddetti alleati come Kit, cioè persone eterosessuali che fanno proprie le battaglie Lgbt+: insomma un universo di persone che possiamo incontrare tutti i giorni ma che per la prima volta hanno avuto voce e caratterizzazione convincenti.
4. Il sesso
La liberazione sessuale è sicuramente uno degli aspetti più cruciali di The L Word. Se appunto nella mentalità comune il sesso lesbico è perversa materia del porno (rigorosamente etero), sul piccolo schermo è arrivato invece sempre in maniera casta, edulcorata, se non invisibile (si pensi a Willow e Tara in Buffy, o ancora di più a Xena e Olimpia). Le protagoniste di questa serie invece fanno sesso in continuazione e la rappresentazione dei loro incontri erotici lascia poco all’immaginazione. Soprattutto il fatto che vivano il sesso in maniera assolutamente libera, salutare e priva da giudizi morali.
Certo, fra strap-on facilissimi da usare e disinibite professoresse d’arte o istruttrici di yoga, anche quello di The L Word può sembrare alla fin fine un mondo ipersessualizzato e irrealistico, in cui si scontano decenni di Sex and the city ed estremismi vari della cable tv. Eppure non si può sottovalutare il fatto che erano stati scarsissimi se non esistenti, prima di allora, i tentativi di dare un volto anche qui umano e realistico al sesso lesbico.
5. Le critiche
Non che The L Word fosse perfetta. Le sue sterzate narrative a dir poco ardite se non assurde, con la scomparsa improvvisa di alcuni personaggi oppure le svolte da prison drama, o ancora i continui tira e molla fra amanti/amiche, ne danno un bilancio piuttosto scontante. Ancora peggio è realizzare, soprattutto a distanza di anni, che siamo di fronte a un gruppo di donne sostanzialmente bianche, magre e ricche, dove non c’è quasi nessuno spazio per le persone di colore o dove ci si lascia ogni tanto sfuggire qualche sottile battuta sulle donne transessuali.
Questa idea patinata e molto wasp della televisione era sicuramente meno percepita come inappropriata all’inizio degli anni Duemila. Eppure riguardare quegli episodi oggi può permettere in modo molto utile di fare un bilancio fra ciò che funzionava e ciò che invece risultava più stridente. Perché oggi più che mai è importante raccogliere l’eredità di questa serie così fondamentale nell’immaginario queer e correggerla nei suoi elementi di esclusione, soprattutto in vista di un revival che vedrà presto la luce.